di Irene Varveri Nicoletti

– Brava Lia, hai talento potresti diventare la migliore di Sicilia e pure del Continente, peccato che sei nata femmina –
Così aveva detto il maestro Onofrio, accennando una smorfia di disappunto e dispiacere sotto i suoi imponenti baffi, nella consapevolezza che l’arte ufficiale e delle accademie nel primo Novecento era solo roba per maschi e che le opere d’arte realizzate da mano femminile sarebbero state catalogate inesorabilmente come minori.
Eppure il maestro bagarese, che periodicamente si recava a casa dei Noto per impartire lezioni private alla ragazzina, era enormemente fiero della sua allieva che a soli undici anni mostrava un’eccellente predisposizione al disegno sapendo cogliere l’essenza del suo segno con tale fluidità e leggerezza da lambire l’incanto.
Brava e femmina, così era Lia che catturava la luce di Sicilia per trasfigurarla in colore, ma anche vispa, vivace ed amante di vestitini elegantemente rifiniti con trine e merletti, che strappava involontariamente quando giocava come un maschiaccio e che macchiava con schizzi di olio riconducibili dalla sua fantasia a forme note.
Lia amava l’arte, ma sapeva che non sarebbe stato semplice affermarsi, glielo aveva detto il maestro da piccola e, crescendo, si rese conto da sola di quanto più semplice sarebbe stato il mondo se avesse indossato i pantaloni.
Ancor più semplice se si fosse dedicata al ricamo oppure alla lettura o ad assecondare solo l’istinto materno o, ancora meglio, se avesse voluto maneggiare pennelli e colori senza pretesa alcuna, se non per mero diletto. Però in quella sua testolina di giovane adolescente siciliana si agitavano pensieri di libertà e di anticonformismo che non erano solo speculazione filosofica fine a sé stessa e di autocompiacimento ma cercavano un nuovo linguaggio espressivo da trasferire nelle tele.

Decisa a sfidare le regole, la giovane ventenne cominciò a frequentare in quella Palermo degli anni Trenta, lo studio del pittore Rizzo, futurista e fascista, grande maestro dalle linee rigide e rigorose. Un ambiente per maschi dove lei non provò mai un attimo di disagio dentro le sue eleganti camicie, le gonne sotto il ginocchio e le scarpe con quel tacco appena accennato ma realizzate su misura da valenti artigiani che ne accentuavano l’andatura femminile.
– Il fascino della tua intelligenza è pari al fascino della tua camminata – le aveva detto un giorno Guglielmo che, pur essendo un giovane chirurgo, amava la pittura al pari della medicina e frequentare i salotti culturali della città e che subiva il fascino elegante della sua intelligenza e della sua creatività.
Che anni, quegli anni!
Furono l’occasione per esporre, per conoscere il grande Renato ma anche Nino e Giovanni e per sperimentare con loro nuovi linguaggi non allineati che si scostavano dall’arte di regime.
Quattro artisti a Palermo, innovatori e antifascisti.
Un po’ come avevano fatto i sei di Torino!
Lia ripensava a tutto questo, in un giorno di sole del Quarantuno, nella sua stanza di un palazzo di via Dante mentre la luce filtrava dalle grandi persiane di legno.
Pensava ai suoi amici che ormai avevano lasciato la città, alla corrispondenza epistolare con Renato, a Giovanni che non c’era più, alla direzione della galleria, a tutto quello che aveva fatto e costruito da donna ed alle sue gonne che continuava a portare con la consapevolezza di artista e la disinvoltura di una mente raziocinante in un mondo di uomini e per uomini.
Ci pensava mentre fuori imperversava la guerra, ci pensava mentre nella clinica del marito nascondevano ebrei ed anarchici e lei continuava a concepire con loro nuove idee e pensieri di libertà frutto di confronto e scambi intellettuali.
Ci pensava fissando una tela con un’espressione ieratica dopo aver definito le campiture, con ancora il pennello in mano che serviva a tracciare mentalmente le linee, dentro un camice sporco di colore a protezione del suo bel vestito che emanava un odore di trementina misto a quello della sua colonia di zagara, donandole un’aurea di quasi sacralità.
Ci pensava ricordando il suo passato ma guardando in direzione futura mentre, tra gli spazi in cui si concepiscono le idee, ne scappò una che fu tradotta in parola pronunciata a bassa voce:
– Chiamatemi Pasqualino –
Lo disse girando di poco la testa ed indirizzando lo sguardo verso il marito che, stanco dopo un’intera giornata trascorsa in clinica, era sprofondato nella poltrona di velluto rosso dello studiolo dove lei amava dipingere.
Pasqualino era proprio il cognome del marito. Guglielmo afferrò immediatamente il senso di quelle parole ed il suo viso si illuminò con un sorriso a punto tale che quel raggio di sole che penetrava tra le persiane pareva fatto apposta per segnarne il contorno.
– Si signora Pasqualino, o forse devo chiamarti signore? –
Eccola lì l’idea concepita in via Dante con la quale Lia si sarebbe fatta beffe della critica. Giocando sull’ambiguità della firma avrebbe firmato i suoi quadri Pasqualino Noto. Fingersi uomo dentro un gioco di equivoci per restare donna. Ed ebbe ragione Lia!
Altroché se non l’ebbe, raggiungendo da lì a poco risultati insperati. Dentro la sua gonna elegante finse di portare i pantaloni come un uomo pur lasciando inalterato il fascino della sua camminata.
Era quello che voleva la critica e questo ebbe la critica. Bastava poco, bastava un nome per cambiare il mondo e per far cambiare idea.
Oppure bastava una donna, anzi una femmina.
E Lia, per fortuna, era nata femmina!
NB: racconto liberamente ispirato alla vita della pittrice siciliana Lia Pasqualino Noto.