di Giovanni Vitale

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente gran parte della sua cultura scomparve. Lo spettacolo, nelle sue tante forme e specialmente quella teatrale che, pure, ne era stata parte molto importante, con l’avanzare del cristianesimo medievale sparì completamente.
Per tutto l’alto medioevo, dice la critica, la ‘forma rappresentativa’ venne assorbita dalla ‘funzione liturgica’ ecclesiale; è solo dopo l’anno mille che in Inghilterra e Francia ricomparve, seppure compresa nella liturgia religiosa ordinaria, una espressione drammaturgica (lauda drammatica) che, peraltro, andò lentamente separandosi anche linguisticamente da ciò che la precedeva: al latino veniva sostituito il volgare, all’inizio metricamente ordinato, cioè composto in versi ma poi, via via, in modi più liberi e più vicini alla parlata popolare. Col tempo il fenomeno si diffuse in tutti i regni d’Europa, tranne che in quello di Sicilia.
Si trattava di rappresentazioni legate alla liturgia sacramentale, spesso della vita di Gesù, della Madonna e  dei Santi. Specialmente in tempo di Quaresima, e pur sempre ad opera di chierici, si prese a drammatizzare la Passione di Cristo. Prima in chiesa ma poi, man mano che la rappresentazione divenne più complessa, fra il XII e il XIV secolo, si spostò fuori, sul sagrato e coinvolse sempre più i laici, riuniti in confraternite. È proprio da ciò che si fa risalire la nascita del teatro moderno e dello spettacolo ‘profano’, che letteralmente significa “prima/fuori dal tempio”, dal latino ‘pro fanum’.
In Sicilia l’alternanza di dominazioni diverse, normanna, sveva, angioina, aragonese e spagnola vi determinarono stili rappresentativi diversi, maturati altrove e importati nell’Isola quali manifestazioni del potere temporale, benché all’interno delle celebrazioni religiose che, appunto, ne legittimavano al popolo la “sacralità”. Già l’incoronazione di Ruggero d’Altavilla, con la ‘sacra unzione’ e gran scenografia (per ben tre occasioni) sancì tali caratteristiche. Durante il periodo aragonese, poi, ci fu un ulteriore irrigidimento della funzione liturgica, impedendone di fatto le “concessioni” narrative d’altri luoghi, a causa della disputa che opponeva i sovrani al papato che era filo angioino. Bisognerà attendere il 1374 allorché con le nozze di re Federico e Giovanna di Napoli la disputa si attenuasse ma che, tuttavia, poco o nulla concesse quanto a liberalità rappresentativa che, anzi, era stata normata da specifiche leggi che ne regolarono la giurisprudenza per tutto l’alto medioevo, arrivando ben oltre il ‘500 (C. Meldolesi).
Ciò non può che stranire e meravigliare data l’atavica passione dei siciliani per lo spettacolo ed il teatro in particolare, sia nella classicità che nel moderno e contemporaneo. O forse è proprio per ciò che chi ne ha voluto dominare assolutisticamente le sorti ha ben compreso che i luoghi e l’azione drammatica – il cui ‘regno’ è la libertà coniugata con l’immaginazione e l’elevazione del sentimento popolare – era conveniente reprimere e cancellare dalla socialità isolana, mantenendone solo gli aspetti più banali e giullareschi, d’intrattenimento cortigiano o di plateale consacrazione del dominio di turno.