di Giovanni Vitale

Il tema del maschile-femminile e delle sue declinazioni è ormai, a dir poco, scabroso e seppure di grande attualità il buon senso spingerebbe a non occuparsene per come è divisivo! Per quanto si voglia essere cauti e delicati nell’affrontarlo, tanto più se lo si vuol fare in modo semplice e breve, la “necessità” comune e ideologicamente determinata spinge, oltre il ragionamento, ad interpretarlo secondo le proprie convinzioni e, ancor più frequentemente, verso pregiudizi condivisi.
Anche a volerlo fare cercando di limitarsi al solo aspetto linguistico e pratico, evitando di entrare in questioni “gender”, cioè di orientamento sessuale, la faccenda risulta pur sempre complicata ben oltre la già indubbia complessità.
Premesso che linguisticamente il problema ha molta più rilevanza nelle lingue neo-latine e maggiormente per la nostra che ha abolito il genere ‘neutro’, anche per quelle di derivazione inglese che solitamente non ne fanno distinzione, si pone concretamente seppure in modi meno diffusi. E, d’altra parte, risulterebbe davvero difficile argomentare che in quei paesi la discriminazione di genere sia stata, storicamente, meno incisiva  che altrove. Parrebbe invece che, a prescindere dalle specificità linguistiche, la “presa di coscienza” del fenomeno sia più attinente con l’emancipazione sociale e la parità dei diritti fra coloro che ne compongono la società.
Ferma restando la legittima libertà personale di riferirsi in privato a sé come meglio aggrada, dato che in pubblico qualche problema può invero provocarlo –  se non altro di sanità mentale: ritenersi la reincarnazione di Napoleone o la legittima Regina d’Inghilterra è diverso se lo si pensa fantasticando nella propria mente o se lo si racconta in giro – e in particolare la questione solleva parecchio interesse quando ci si riferisce a un’altra persona, specialmente nell’appellarla con titoli, mansioni ed aggettivi vari. Ecco che la situazione si inoltra in ciò che intendiamo come ‘riferimento’ e, ovviamente, per quel che consideriamo come ‘significato’ dei termini, delle parole che usiamo.
Se inoltre ci spingiamo ad analizzarne le condizioni di ‘causa-effetto’, volendone altresì determinare realisticamente la portata, ci accorgiamo secondo H. Putnam che tali questioni “si sovrappongono, sono in relazione e s’influenzano reciprocamente”, sia per il linguaggio che per il riferimento.  Già N. Chomsky ha spiegato che le parole sono ‘ganci’ a cui appendiamo i nostri pensieri e i concetti con cui ci rappresentiamo e interagiamo con il mondo; e che questi sono biologicamente determinati, se non altro per la ‘convergenza degli interessi’. Putnam ha obiettato che ciò non è sufficiente per determinare logicamente il riferimento alle “cose” del mondo e, dunque, il significato con cui le interpretiamo. Ma, tuttavia, ci sono condizioni per cui le ‘convenzioni’ ne determinano le pratiche, concettuali e sociali, perfino etiche nella misura in cui vengano pragmaticamente “stabilite” come verità.
Insomma che non distinguere fra le declinazioni maschile e femminile sia necessario affinché scompaiano le disuguaglianze di genere nel sociale può, logicamente, risultare arbitrario ma d’altronde può contribuire perché diventi sufficiente, il ché non è affatto poco!