di Salvo La Porta
Il 16 luglio, tutta la famiglia partecipava alla messa serale, che monsignor Silvestre Lo Sicco arciprete emerito con i paramenti solenni celebrava sul sagrato della chiesa della Madonna del Carmine, adiacente alla Granfonte.
Tutto il paese c’era e tutti i Lo Sicco, i Gamberi, i Tramontana e gli affini dovevano partecipare. Non si poteva scappare!
Il caldo era sempre soffocante e neppure la frescura dell’ acqua che scorreva dai ventiquattro cannoli riusciva a contrastarlo.
Come faceva il monsignore a resistere sotto quei sacri paramenti? Lui, così mingherlino e con quella voce quasi flebile, come faceva?
Forse, per questo a metà del sacro rito pareva che avesse preso lo scioglilingua e non aveva ancora finito di dare la benedizione, che dava un’occhiata d’intesa a Turuzzu, l’autista tutto fare, perchè andasse immediatamente a prendere la macchina già carica dei bagagli.
A sistemare tutto, alla fine della cerimonia avrebbero pensato quelli del comitato.
Non erano ancora andati via gli ultimi fedeli, che puntualissimo Turuzzu arrivava alla guida della vecchia auto, dava un colpo di clacson e l’anziano prelato madido di sudore arrivava per accomodarsi al posto davanti, dopo avere risposto distrattamente ai “sabbenidica” di quelli rimasti.
Si parte, destinazione Milocca. Lungo la strada sarebbero passati a prendere Giovannino, sua moglie Tanina e la loro figlia Serafina. Tutti Lo Sicco.
Pepè, il marito di Serafina, sarebbe venuto l’indomani, insieme ai due figli, perchè aveva qualche cosetta da sistemare.
Sarebbe andato Turuzzu a prenderli tutti domani, “ a rifriscata”, dopo le cinque del pomeriggio.
I fidati custodi della tenuta di Milocca avevano già pensato a sistemare tutto e le stanze della casa si offrirono agli ospiti in tutta la loro agognata freschezza.
Era stata persino stesa sotto il lungo tavolo all’ombra del pergolato una tovaglia, a quadri bianchi e rossi, sulla quale erano stati posti il pane, il fiasco del vino, una caraffa d’acqua ghiacciata e le stoviglie.
Presto tutti furono a tavola e, dopo una brevissima distratta benedizione della mensa da parte dello zio Silvestre, ebbe inizio la cena.
Cucuzza”. Proprio così, zucchina; perchè, sia il padrone di casa, che il nipote Giovannino soffrivano di stitichezza e tutti i commensali si sentivano in obbligo di favorire i loro sforzi mattutini.
Tanina, in verità, si adoperava a preparare qualche altra pietanza, anche buona e saporita, ma lo zio desiderava che tutti la mangiassero la zucchina in umido. Tutti. Dopo, chi avesse voluto poteva mangiare qualcos’altro. Ma prima la zucchina.
A nulla servivano le timide proteste della giovane Serafina, per la quale era valido il detto: “ misturi metticcinni na visazza, falla cuomu la vuoi sempri è cucuzza”. Anche lei la doveva mangiare. Se no, “ pani schittu”.
 
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Serafina era una bellissima florida donna, bruna e prosperosa, con un paio di seni straripanti dal bianco prendisole, nel solco dei quali si depositavano nei giorni di caldo gocce di fastidioso sudore, che lei era costretta a tergere con un fazzoletto di lino.
Il matrimonio con il marito Pepè, quindici anni più grande di lei, era stato combinato ed allietato dalla nascita di due bimbi. Sembrava che fossero felici.
La serata scorse stancamente, com’era facile prevedere, sino a che lo zio Lo Sicco diede licenza di andare a coricarsi, raccomandando di recitare le devozioni serali.
Ma tanto che c’era da fare? Neppure la televisione c’era; si poteva leggere o ascoltare un po’ la radio. Tutto qui.
L’indomani, tutti si svegiarono al canto del gallo, fecero colazione e si dedicarono alle loro cose.
Venne l’ora del pranzo, ciascuno prese rigorosamente il suo posto e recitate le preghiere di ringraziamento, che furono più lunghe di quelle della sera precedente, si cominciò a pranzare. “ Cucuzza”. A nulla valse l’odore del pane fresco appena sfornato, prima….
Nel corso del pranzo, Serafina fece come se si fosse ricordata di avere dimenticato qualcosa di importante a casa in paese. Certe pillole, che il medico le aveva prescritto per dormire e che con questo caldo le sarebbero venute utili, se non indispensabili. L’insonnia, si sa, una brutta bestia è; poi con il caldo, l’agitazione aumenta.
Poteva dire a Turuzzu di chiedere a Pepè di portargliele.
Ma neppure lei sapeva dove le avesse messe quelle benedette pillole nella confusione della partenza. Niente, meglio lasciare perdere. Tanto era certa che sarebbe riuscita a prendere sonno con il fresco e la pace della campagna.
“ Brava!” esclamò la mamma “ e se poi non dormi e ti agiti? Chi facimu, a notti di Natali?”
In fondo, Turuzzu sarebbe dovuto tornare in paese a prendere Pepè e i bambini. Sarebbe potuta andare con lui.
Ma chi dici, mamà?” ribattè Serafina. Non sarebbe stato conveniente andare da sola. Magari se lei le avesse fatto compagnia…
Se, se, e a turnata? Unni ni mittemu tutti sti cristiani a turnata? Machina è! Chi è autobus?”
Che fosse andata, dunque, e senza fare capricci, perchè la salute prima di ogni cosa viene.
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Alle cinque de la tarda, Serafina dopo la siesta fu pronta in attesa che arrivasse Turuzzu.
“ Quant’era bieddu, quant’era bieddu, quant’era bieddu!”
Si erano, quindi, accomodati in macchina e avevano cominciato il viaggio.
Ma che caldo che c’era! Che caldo…..e il caldo, si sa, fa brutti scherzi. Per cui, a metà strada proprio nei pressi di Passo del Catalano, sotto il meraviglioso corridoio di querce, la macchina sembrò avere sete e non volle più sentirne di andare avanti.
Turuzzu era tuttofare, ma non è che di meccanica ne capisse molto. Decise, comunque, di provare e….provò. Provò e riprovò, incoraggiato e sostenuto da Serafina che, intanto, era scesa a dargli una mano.
I tentativi furono diversi ed entrambi fecero del loro meglio. Non lasciarono nulla di intentato. Sino a quando si accorsero che la macchina, proprio come le persone, aveva solo bisogno di acqua.
Intanto, i loro abiti si erano quasi “allazzariati” e il prendisole di Serafina era diventato come il mantello delle vacche, “ bianco, nero pezzato”.
Pareva che avessero fatto la lotta. Queste benedette macchine! Arrivarono in paese verso le otto e trovarono Pepè preoccupatissimo e i bambini irrequieti.
Dopo avere raccontato dettagliatamente e concitatamente i fatti al marito, Serafina corse a casa a rinfrescarsi, cambiarsi d’abito e….a prendere le pillole.
Finalmente, partirono e questa volta senza incidenti arrivarono a Milocca, dove iniziò la sospirata villeggiatura.
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La vita scorreva serena, i pranzi e le cene si susseguivano, sempre identici nel menù di base, ma bisogna dire variati nei secondi e nei contorni con i più gustosi piatti siciliani.
A capotavola zio Silvestre e Giovannino, alla cui destra stavano la moglie Tanina e Turuzzu, che essendo “tuttofare” sedeva a tavola con la famiglia. Accanto a Turuzzu stava Pepè e di fronte Serafina e i bambini.
Sempre identici a se stessi quei pranzi e sempre gli stessi gli argomenti trattati, prima di ogni altro il caldo!
Tutti lo soffrivano il caldo, ma quella che lo soffriva di più era Serafina, che non allentava di asciugarsi il sudore dei seni con il suo fazzolettino, mordicchiandosi con i bianchi denti una volta il labbro inferiore, un’altra quello superiore.
Chi aveva di fronte Serafina? Turuzzu e Pepè; ragione per la quale era costretta a guardare “senza malizia” ora l’ uno, ora l’altro.
Pepè avrebbe voluto che quegli sguardi fossero solo per lui; ma lo sguardo va dove noi non vorremmo che andasse e tradisce i nostri sentimenti; per cui, quando la moglie guardava Turuzzu gli sembrava che tra i due vi fosse una specie di peccaminosa intesa.
Quel mordersi le labbra…..
La stessa sensazione dovette avere don Silvestre che, per il cumulo degli anni e per avere trascorso metà di quegli anni nel confessionale, aveva l’occhio più lungo degli altri.
Fu così che, osservando la giovane nipote e seguendone il tragitto degli occhi, si accorse che quegli occhi si andavano a posare su quelli di Turuzzu, prima di sorvolare fugacemente quelli del marito Pepè.
Si accorse, inoltre, che Serafina mentre posava un po’ più del giusto lo sguardo sul giovane non la finiva di tormentarsi le labbra.
Non resse il povero monsignore e, fingendo l’indifferenza di cui sono capaci solo gli ecclesiastici, portò alla bocca il cucchiaio colmo di quella minestra, che gli andò di traverso sino al “cannarozzo sarvaggiu”, rischiando di farlo soffocare.
I soccorsi furono immediati, “ chi fu ziu? Monsignori, chi ci successi? Cuomu si senti? Livativicci davanti, facitulu rispirari, datici aria…vossa s’arripigghia”.
Monsignore si riprese subito, riprese colorito (ovviamente il suo colorito olivastro), invitò tutti a finire la cena e a ritrovarsi subito dopo sotto il carrubbo, per recitare il santo rosario, in ringraziamento dello scampato pericolo.
Finito il rosario, i Lo Sicco si scambiarono la buona notte e andarono a riposare e sollevati per l’immediato recupero dello zio Silvestre, dormirono saporitamente.
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Chi non riuscì a prendere sonno fu Pepè. Qualche dubbio sulla fedeltà di Serafina l’aveva avuto e l’ improvviso malore dello zio ne aveva notevolmente aumentato la consapevolezza.
Non trovava rizzettu e si voltava e rivoltava sul materasso di crine, senza mai trovare la giusta posizione; con quel pezzo di donna che aveva a lato e con il tarlo della gelosia, restava immobile sul cuscino, con gli occhi semisbarrati, indeciso se approcciare la moglie o no.
Provò diverse volte l’approccio, ma sempre con esito negativo.
Troppo caldo sentiva Serafina.
Si alzò, fece due passi fuori al chiarore della luna e, ubriaco del canto dei grilli, decise che da quel momento si sarebbe chiuso in un dignitoso silenzio.
Il luogo in cui si parla di più è la tavola; e a pranzo e a cena , ciascuno diceva la sua e si intrecciavano discorsi e opinioni.
Pepè zitto. Muto come un pesce. Solo buon pranzo, buona cena, grazie, prego. Niente di più.
A preoccuparsi dell’atteggiamento del genero fu Giovannino, che diverse volte e in mille modi cercava di farlo parlare.
Non aveva più argomenti. Sino a quando, non potendone più decise (è il caso di dirlo) di “prendere il toro per le corna” e di intimare quasi a Pepè che, per l’amore di Dio, parlasse.
Il poverino si fece allora coraggio e con la voce bassa e l’aria rassegnata ribattè, “ chi v’aju a diri, ca vostra figghia mi fa i corna?”
A quella rivelazione, Giovannino fece cadere il cucchiaio nel piatto, facendo schizzare la minestra sulla vestina di Tanina, sbarrò gli occhi e gli si voltò stizzito, quasi inveiendo, al grido di “Ah, quantu parri!!! Mutu statti e finisciti di mangiari a cucuzza!”
La cosa sarebbe finita là, se l’orgoglio mascolino di Turuzzu non l’avesse portato a confidare l’accaduto ad un amico e questo ad un altro ancora e, da confidenza in confidenza, (come insegna Manzoni) a tutto il paese, sino a giungere alle orecchie di mio suocero, Turi Stanzù, che non mancava di ricordarcelo, ogni qualvolta insistevamo, perchè qualcuno fosse più loquace.
Meglio non insistere per sapere quello che pensano gli altri, perchè se è vero che siamo liberi di pensare, non è sempre vero che quel pensiero possa piacerci e non è altrettanto vero che siamo sempre liberi di esprimere il nostro pensiero.
In certi casi, è meglio tacere; poichè siamo liberi di pensare, purchè il nostro pensiero coincida con quello del nostro interlocutore.