di Giovanni Vitale

Che non si possa non comunicare, da assunto pragmatico specialistico, è diventato un vero e proprio slogan relazionale, una sorta di mantra che guida ogni azione sociale ma i cui effetti pratici, in quest’era della comunicazione globale, sono ancora da valutare fino in fondo.

È un dato oggettivo che con l’avvento dei social network la comunicazione mediale si è sostanzialmente trasformata: da ‘mainstream’ cioè piramidale in modo progressivo e ‘da uno a tanti’ è anche diventata, con il digitale, ‘reticolare’ e che si estende per nodi interconnessi, in modo istantaneo e, per i singoli nodi (one to one) della rete, dalla rilevanza relativa. Ciò comporta che il controllo sulla ‘validità dei nodi’, ossia la valutazione dell’autorevolezza di ciò che esprimono, risponde a condizioni affatto diverse che in passato. Si tratta dell’ormai famoso “diritto di parola a legioni d’imbecilli” che è stato indicato come uno dei mali di questa nuova condizione sociale.

Ad entrare nello specifico si possono osservare fenomeni piuttosto particolari di tale condizione e specialmente sono da segnalarne un paio, di sostanziale importanza: la ‘eco-stanza’ e la ‘bolla informativa’ (Echo Chambers and Information Bubble). Il primo riguarda la percezione distorta della realtà mentre il secondo ne amplifica gli effetti psicologici; ne risulta il progressivo incremento, peraltro inconsulto, di ‘immagine della vita’ e ‘idea del mondo’ la cui aderenza con esperienze effettive, nonché della coerenza con assodati modelli interpretativi, è parecchio opinabile, quando non del tutto inopportuna e persino pericolosa. È proprio della struttura ‘a rete’, dell’odierna diffusione dell’informazione, la selezione di notizie la cui credibilità prescinde dall’autorevolezza delle fonti, basandosi altresì su scelte arbitrarie del singolo utente; scelte fondate non sulla competenza e la reale conoscenza degli eventi ma su elementi legati al sentimento e alle aspettative precedenti l’approccio alle specifiche circostanze: spesso si tratta in effetti di mero pregiudizio. Tale preconcetto spinge alla ricerca ulteriore di conferme che possono essere altrettanto incerte e dal dubbio, se non falso, fondamento. Un comportamento, che privo com’è di ogni controllo e rigorosa verifica, viene ulteriormente e costantemente rinforzato dall’offerta procurata dalle ‘piattaforme comunicative’ (motori di ricerca e reti sociali) i cui algoritmi, cioè i programmi che ne regolano le funzioni, sono appositamente sviluppati per favorirne l’esecuzione in prosieguo. L’algoritmo è straordinariamente intelligente a svolgerne le mansioni, specialmente nel trovare in Rete (Internet) notizie che confermino le nostre opinioni e preferenze, a mostrarcele stuzzicando la nostra attenzione. Lo fa perché segue il principio commerciale (marketing) che prevede l’elaborazione del nostro profilo personale così da proporci consigli mirati all’acquisto e consumo: ciò vale ormai anche per l’informazione e la conoscenza, spesso non tenendo in alcun conto questioni d’ordine etico e morale.

Recentemente, però, il fenomeno ha assunto tali proporzioni, riguardo a quanto appena detto, da preoccupare quanti gestiscono le varie piattaforme, spingendoli a mettere in campo accorgimenti, ovviamente di tipo tecnologico, che ne limitino al peggio le implicazioni. D’altra parte ciò ha destato la preoccupazione d’inopinate ingerenze censorie e di orientamenti ideologici, imposti arbitrariamente all’utenza che, di fatto, ha ben poche possibilità di contrastarne il dispiegamento: va tenuto presente che le piattaforme sono a statuto privato e che chi ne fa uso accetta, e perfino sottoscrive, delle clausole d’utilizzo molto particolareggiate, tutte a vantaggio della proprietà nonché a salvaguardia legale delle sue prerogative. È pur vero che fra le clausole si postilla la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone, ma resta il fatto che l’obiettivo primario dei gestori sia il profitto commerciale e che quindi la finalità è l’utilizzo per tali scopi dei dati personali e collettivi dell’utenza, così da elaborarne al meglio il profilo individuale e sociale (target).

Risulta evidente come tutto ciò, se per l’utenza può essere conveniente dal lato del raggiungimento ed acquisto di beni e servizi, non può certo esserlo da quello dell’informazione e della cultura in senso lato. Ne viene meno, infatti, intanto il contraddittorio e la falsificabilità, requisiti fondamentali per la conoscenza critica ed il giudizio ponderato. Il contesto informativo personale, e di gruppo affine, finisce poi per essere circoscritto ad un’unica prospettiva, racchiuso da una ‘bolla’ virtuale ma estremamente efficace, che ne orienta e limita le competenze analitiche nonché la facoltà di sintesi.

A tutto ciò va aggiunta la cosiddetta ‘Agenda Setting’, cioè la ‘soglia di notiziabilità’, che da sempre regola i canali informativi tradizionali. Soglia che è viepiù condizionata dall’odierna incidenza della comunicazione digitale, per il ‘rinforzo’ dei dati e la ‘ridondanza’ delle notizie. Dati la cui fondatezza, molto frequentemente, sfugge ad ogni verifica indipendente e la cui velocità di propagazione ne accresce surrettiziamente l’accettabilità; le notizie, inoltre, esposte da un canale all’altro delle molte piattaforme, creano l’illusione della diversità delle fonti che, invece, possono, e il più delle volte ad un’attenta analisi risultano essere, le medesime e la cui veridicità sta interamente nella disposizione delle stesse, ammesso che siano univocamente rintracciabili e legalmente addebitabili.

La gravità della questione è già emersa dalle indagini su varie campagne ed esiti elettorali, dove s’è dovuto costatare quanto sia difficile in corso d’opera far fronte alla diffusione ad arte di notizie false ma destabilizzanti. E per quanto ci si possa fortunosamente riuscire, il danno prodotto è difficilmente arginabile e più improbabilmente recuperabile. Ancora più vistosamente gli effetti sovversivi di simili pratiche si avvertono durante certe sciagurate emergenze, tanto più se si tratta di  disastri dall’ampiezza globale come le crisi finanziarie degli ultimi decenni o l’infezione virale in cui ci dibattiamo da oltre un anno.

Piuttosto interessante appare inquadrare la questione sulla riga del ‘Cigno nero’, metafora esplicativa desunta come particolarità del classico, omonimo, problema filosofico. La teoria è stata proposta dal matematico statunitense N.N. Taleb come descrizione di “un evento non previsto, che ha effetti rilevanti” ma che, pur d’importanza spropositata, pone seri problemi analitici ed identificativi, anche a causa delle distorsioni psicologiche e sociali che l’accompagnano; gran parte dei quali dovuti alla proliferazione e diffusione di informazione (infodemia) spesso carente per qualità ed accuratezza, piuttosto improvvisata insomma. A contribuire al disastro sono perfino specialisti che vantano competenze idonee a trattare l’argomento ma che, data appunto l’insorgenza inaspettata e dalle conseguenze sconcertanti, più che chiarire e fornire indicazioni congrue e conducenti alla soluzione del problema, ne complicano la prospettiva lungo linee talmente divergenti, divisive, da provocarne il travisamento fino alla totale stravoltura.

La gravità della faccenda è tanto maggiore in quanto interagisce con le disposizioni istituzionali degli Enti e dei Governi di paesi singoli e sovranazionali, direttive dalla puntualità ragionata sull’onda emergenziale e dall’efficacia talvolta considerata in riferimento alla pubblica opinione che, come abbiamo visto è, può essere, condizionata da ingerenze indebite e poco trasparenti. Se a ciò si aggiunge l’iniziativa di quanti vogliono trovare “l’opportunità nella crisi” e che, a loro volta, investono competenze e risorse per favorire interessi trasversali, magari volti proprio a sfruttare per profitto, non del tutto lecito, i bisogni che l’improvviso mutamento negli assetti sociali, in questo caso la pandemia e le conseguenti limitazioni, che ne insorgono, ecco che l’emergenza può trasformarsi in destabilizzazione di lungo periodo, fino ad assestarsi in equilibri inusitati, imprevedibili e verso i quali la società e le sue comunità sono del tutto impreparate e difficilmente adattabili. Con ulteriore aggravio delle condizioni di vivibilità e, dunque, con un aumento del dissenso che può spingersi a forme di opposizione che possono condurre a vera e propria instabilità civile.

Infine, ma non per ultimo come si suol dire, c’è la particolare propensione ‘narrativa’ della Rete, nella fattispecie dei social network. Che vengano meglio apprezzati, sia dagli utenti che dagli algoritmi, i contenuti in qualche modo narranti, sia in forma di scrittura che audio o per immagini, ne deriva che gran parte della comunicazione ‘socialnet’ venga improntata in tal senso (storytelling). Gli interventi (post) che raccontano storie, specialmente se originali, sono più letti e condivisi, acquistando quindi maggiore visibilità dalle piattaforme (viralità). Non importa tanto la durata o l’estensione del contenuto, e finanche la qualità tecnica del pezzo, quanto l’impatto emotivo (sentiment) che suscita. Ciò ha comportato una sorta di adattamento progressivo, sia da parte degli ‘addetti ai lavori’ della Rete che dei singoli utenti, a questo genere di comunicazione. Inoltre anche un determinato argomento, ricorrente nei ‘post’ e nelle discussioni, finisce per assumere caratteristiche tipiche della narrazione affabulatoria, contraendone i ritmi e gli schemi ma, soprattutto, garantendone il consenso ed il seguito popolare. Ovviamente finisce per contare poco l’autorevolezza accreditata, scientifica o d’altra sponda, che viene sostituita dalla notorietà o dall’appartenenza comunitaria di chi comunica il contenuto (influencer).

La cosa più rilevante però è che praticamente ogni argomentazione finisce per sottostare alla logica narrativa, ovviamente a scapito dei fatti e di ogni evidenza. Ancor meglio, capita che della stessa evidenza è possibile presentare più di una versione, mettendo maggiormente in risalto nel raccontarla alcuni fatti a scapito di altri, cioè quelli che meglio si prestano alla narrazione preferita. Esistono svariati accorgimenti retorici che consentono la messa in risalto di fatti più acconciabili ad una determinata narrazione, meglio inseribili nella trama di un certo racconto. Così finisce per diventare più realistico, più “vero”, quello che raccoglie maggior consenso e popolarità, a prescindere dalla veridicità delle notizie che racconta e che, talvolta, possono essere in parte o completamente false (fake news).

Per quanto dalla parte gestionale delle piattaforme si proclamino sensibili alla problematica e vengano da tempo annunciati e messi in campo accorgimenti per limitare gli effetti di cui sopra, al momento si è piuttosto lontani da concrete soluzioni, malgrado l’intervento massiccio oltre che degli sviluppatori informatici anche delle più potenti ed innovative Intelligenze Artificiali.  Dalla parte della giurisprudenza poi, oltre i consueti ritardi del legislatore in merito, i tentativi fin qui esperiti non pare abbiano risolto in alcun modo la problematica, se non per questioni tutto sommato di scarsa rilevanza prescrittiva, seppure variamente penalizzanti. Va da sé che anche con le migliori intenzioni, pur in casi di straordinaria gravità come la pandemia in corso, procedure e protocolli comunicativi restano quel che sono e ben poco possono gli espedienti in opera dimostrando, caso mai ce ne fosse bisogno, come le risorse tecnologiche della comunicazione digitale siano avanti rispetto alla ponderata riflessione ed alla regolarizzazione delle stesse per fini umanitari anche in casi d’urgenza e necessità. Fin quando gli investimenti settoriali restano prevalentemente, quando non esclusivamente, orientati al profitto commerciale ed economico è ovvio che alla comparsa del ‘Cigno nero’ la società civile, locale o globale, sarà sempre indietro e scarsamente efficace nel contrastarne le calamità!

 

BIBLIOGRAFIA

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